Intervista - Umberto Eco

Questa mattina all’Università degli Studi di Teramo, all’interno della Facoltà di Scienze della Comunicazione, si svolgerà la giornata conclusiva del XLII congresso AISS (Associazione Italiana Studi Semiotici) iniziato lo scorso venerdì 24 ottobre. Con il tema “Tra natura e storia”, tale convegno ha raccolto il fiore dei semiotici italiani e oggi avrà il suo apice alle ore 11:30 con la tavola rotonda “Apocalittici e integrati: una rilettura contemporanea”; ospite d’onore è Umberto Eco, autore del saggio edito nel 1964 (“Apocalittici e integrati. Comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa”) a cui è intitolato il consesso di semiologi. Eco non è solo uno dei maggiori semiotici in Italia, ma è anche filosofo e scrittore – ricordiamo il best-seller “Il nome della rosa” – e ha rivolto parte delle sue speculazioni in campo estetico; infatti, attraverso il saggio sopraccitato, ha dato vita a un’importante teorizzazione della cultura di massa. Se nel 1967 il francese Guy Debord dava alle stampe il suo libro culto “La società dello spettacolo”, denunciando la triste condizione di uno spettatore alienato dalla potenza globale dei mass media, Umberto Eco in Italia, con una manciata d’anni di anticipo, cerca di carpire il buono dell’industria culturale dietro la quale si annidano prodotti che, seppur di massa, sono portatori di valori positivi. Uno su tutti è il fumetto “Peanuts” di Schulz pubblicato dal 1950 al 2000.

A presiedere l’organizzazione delle tre giornate dedicate alla Semiotica è il professore, nonché preside della Facoltà di Scienze della Comunicazione, Stefano Traini che ci spiega come si è già svolto e si svolgerà domani l’evento. “Si tratta del XLII convegno della Scuola Italiana Studi Semiotici la quale ogni anno sceglie una sede che cerchiamo di cambiare per dare spazio a tutte le sedi e le scuole di semiotica. Con il sostegno del rettore e di sponsor, quest’anno ho pensato di proporre Teramo al presidente dell’associazione e siamo riusciti ad ospitare i maggiori semiotici italiani in questi tre giorni. Il tema è la natura in rapporto alla storia per cercare di capire come il concetto di natura è costruito strategicamente dai discorsi e dalla comunicazione, perché la natura non è affatto secondo noi strettamente naturale ma è culturale, nel senso che è costruita di epoca in epoca e quindi dalle storie. Questo è ciò che ci proponiamo di capire, destrutturandone il concetto e i meccanismi comunicativi. Il convegno è rivolto ovviamente maggiormente ai semiotici che vengono da tutta Italia, ma anche ai nostri studenti. Io sono molto contento di ospitare qui questo convegno un po’ come docente di Semiotica, ma anche e soprattutto come preside di Scienze della Comunicazione perché questi sono i temi che cerchiamo di trattare. Il convegno è arricchito da relazioni plenarie rivolte a tutti e da laboratori o atelier nei quali cerchiamo di raggruppare le comunicazioni, cioè gruppi locali di scuole che presentano i risultati delle proprie ricerche”.

Ma “La Città” ha ottenuto un’intervista dal protagonista del convegno, il filosofo Umberto Eco che fa il punto della situazione dopo cinquant’anni dall’uscita del suo libro.

Lei ha affermato che lo scontro fra apocalittici e integrati si sia spostato dai mass media classici al web. Cos’è cambiato in questo lasso di tempo? È solo una questione di medium o pensa che i fruitori siano un po’ più coscienti nel loro uso del mezzo (in questo caso internet) e possano esprimere appieno la tanto agognata “intelligenza collettiva”?

Io parlerei piuttosto di “stupidita collettiva” perché l’utente del web crede di essere autonomo ma è sopraffatto da una tale abbondanza e contraddittorietà delle informazioni che per poter fare delle scelte bisogna avere letto tanti libri. Quindi il problema del web non è tanto l’acquisizione di un’autonomia da parte del consumatore, casomai ce l’aveva di più un bambino che leggeva i fumetti perché capiva se una cosa era ben disegnata o no. Cos’è successo in questi cinquant’anni? In effetti non è successo niente nel senso che in ogni epoca c’è stata un’opposizione rispetto a tecniche, linguaggi e valori nuovi tra conservatori e innovatori: dai neoteroi dell’antica Roma alla “querelle des anciens et des modernes”, ma quello che ha caratterizzato anni fa la cultura di massa è stato che di solito quando in un’epoca c’era l’opposizione antichi-moderni, i moderni erano quelli che proponevano valori nuovi; già negli anni ‘50, quando nasce tutta la tematica delle comunicazioni di massa, può succedere che sono i conservatori a stare a sinistra, mentre i moderni mancano addirittura di pensiero; questa è una frattura che permane ancora oggi, se valesse ancora opporre la destra e la sinistra – concetti abbondantemente in crisi – chi è a sinistra? Il sostenitore del web o il critico del web che dice “io uso solo la stilografica”? Ecco cosa c’è in comune tra le due epoche. La tematica non è più fra la cultura di élite e cultura di massa poiché verso gli anni ’60 si è verificato un rovesciamento totale: Pop Art - Beatles, impossibile definire dove risiedano i due tipi di cultura. Un esempio: negli anni ’50 un critico della cultura di massa, Dwight MacDonald, aveva appunto distinto il “mid cult” (o “mass cult”) dalla letteratura d’eccellenza attestando alla prima categoria tutto quello che adesso chiameremmo “trash” all’interno della quale vi erano altresì Walt Disney e tutti quei narratori che volevano compiacere il lettore. Ma cosa succede oggi? L’editore più raffinato della lettura “alta” e nemico della volgarità che è Adelphi, pubblica esattamente quello che era il “mid cult” degli anni ’50. Quindi la battaglia non è più fra i cosiddetti livelli di cultura; dov’è la divisione fra antichi e moderni oggi? Il critico del web che afferma che il web non incoraggia la scelta libera ma incita alla passività è un reazionario o colui che vede lo sviluppo futuro?

Se nel ’64 eleva il fumetto “Peanuts” a uno dei migliori esempi di prodotto dell’industria culturale – capace di sfruttare la logica consumistica per veicolare dei valori – cosa salverebbe degli anni 2000?

Per parlare del proprio tempo bisogna farlo cinquant’anni dopo; oggi si dice che non ci siano grandi narratori, ma se ci saranno stati dei grandi narratori lo sapremo solo fra cinquant’anni. Sempre per rimanere nell’universo “Peanuts” – quello che oggi non si chiama più fumetto ma è designato con altri nomi come “letteratura illustrata” – ci sono delle opere di grande valore culturale, basterebbe pensare a Hugo Pratt. Mentre possono esserci romanzi da Premio Strega che sono delle porcherie, possono esserci altrettante “bandes dessinée” di alto valore.

Nella produzione culturale di oggi è possibile parlare ancora di Postmodernismo nella sua accezione di “modo di operare”?

Se parliamo di mode a quest’ora ci dovrebbe essere il Post-postmodernismo; se lo intendiamo ancora con le caratteristiche che avevo individuato io, nello specifico nelle “Postille” a “Il nome della rosa” – ironia, doppio codice, divertimento – c’è ancora molta produzione letteraria di questo tipo. La metanarratività è diventata addirittura di uso normale nel suo espediente di colloquiare con il lettore e cercare di coinvolgerlo. Quindi se non se ne fa un uso immoderato come è stato fatto credo che alcuni degli elementi del Postemodernismo rimangano fissi. Le faccio un esempio: pare che sia stata un’invenzione del Modernismo il monologo interiore, ma oggi alcuni tra i romanzi più correnti ne fanno un grande uso e l’hanno fatto diventare una tecnica letteraria ampiamente accettata.